Marghera nel documentario di Andrea Segre appare come un luogo irreale e astratto, uno spazio metafisico e ancorato, intersecato di viali che si prolungano all’infinito, cesellato di piccole case geometriche isolate nel verde. La sua immagine speculare è il porto commerciale, caotico e decaduto, duemila ettari di industria e cantiere, 135 chilometri di binari, 18 canali portuali, quaranta di strade interne dove il regista incontra impiegati in pensione, manager, operai stranieri, camionisti e la cuoca dell’ultima trattoria rimasta. Avamposto a prezzi modici per avventori sopravvissuti alla fine del Petrolchimico.